Sodio e sale nell’alimentazione: elementi di riflessione
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Introduzione
L’aggiunta di cloruro di sodio (cioè di sale) ai cibi è relativamente recente nella storia dell’uomo. In origine, la fonte dietetica del sale era esclusivamente la quota, pari a non più di 1 grammo al giorno, naturalmente contenuta negli alimenti; ma già 5-10.000 anni fa l’uomo ha iniziato ad insaporire la propria dieta aggiungendo sale. In quantità crescenti: tanto che la prima osservazione sugli effetti negativi dell’eccesso di questo composto, formulata da un medico cinese, risale addirittura al 1700 a. C.
Nella società moderna, il consumo giornaliero di sale ha ormai raggiunto livelli decisamente elevati. In Italia, secondo i dati INRAN, ne consumiamo circa 10 grammi/die (pari a circa 4 grammi di sodio): un valore ben oltre i livelli raccomandati, che, sempre secondo l’INRAN, non dovrebbero eccedere i 6 grammi di sale (o i 2,4 grammi di sodio) al giorno. I termini sale e sodio sono spesso usati come sinonimi, per chiarezza è utile precisare che il sale è composto dal 40% di sodio(Na+) a da 60% di (Cl-), e che quindi un grammo di sodio è equivalente a 2,55 g di sale.
E’ importante ricordare che il sale (e quindi il sodio) introdotto con la dieta può derivare da più fonti. Molte tecniche di preparazione (e di conservazione) utilizzano il sale più o meno abbondantemente; il sodio, inoltre, è presente in quantità non trascurabili in molti farmaci, spesso anche di uso cronico.
L’eccessivo apporto di sale con la dieta si associa, secondo un’ampia serie di osservazioni epidemiologiche, ad un’aumentata probabilità di sviluppare fattori di rischio (o patologie): come l’aumento dei valori pressori (ed una delle sue più temibili complicanze, l’emorragia cerebrale), l’aumento dell’escrezione urinaria di calcio, che porta alla riduzione del tenore calcico nelle ossa e alla formazione di calcoli renali, la ritenzione idrosalina, che può peggiorare il quadro dello scompenso cardiaco congestizio, e ad una tendenza all’obesità; il sale porta inoltre ad un peggioramento della sintomatologia asmatica ed al rischio di cancro dello stomaco. A proposito di questo tipo di neoplasia è interessante rilevare che la sua incidenza, nei paesi industrializzati, ha subito una brusca riduzione verso la metà del ‘900, in concomitanza con la diffusione delle tecniche di refrigerazione per la conservazione di cibi come la carne, il pesce, le verdure: e quindi con il progressivo abbandono della conservazione sotto sale, ormai limitata a preparazioni particolari, che ne condizionava grandemente il rischio di comparsa.
Sale, sodio ed ipertensione
L’ipertensione (così come le malattie cardiovascolari, che ne rappresentano una potenziale conseguenza) presenta un’eziopatogenesi multifattoriale complessa, difficilmente attribuibile a fattori isolati, sia dietetici che comportamentali o genetici. Tuttavia, la relazione diretta tra i livelli di assunzione di sale, il metabolismo renale del sodio e la pressione arteriosa gode del solido supporto che deriva da circa un secolo di ricerche epidemiologiche e cliniche, e da qualche decennio di studi di genetica condotti sia nell’animale che nell’uomo.
In particolare, tutte le osservazioni indicano un rapporto di natura causa-effetto tra l’assunzione elevata e cronica di sale e lo sviluppo di ipertensione, specie se in concomitanza con una ridotta capacità di escrezione renale, e suggeriscono un’associazione diretta tra lo stesso consumo elevato e l‘aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare, sia conseguente all’aumento della pressione arteriosa, sia per effetti diretti sulla funzionalità vascolare e cardiaca.
Oggi, come si ricordava, i livelli di assunzione medi di sale si aggirano intorno ai 10 grammi al giorno: e numerose evidenze epidemiologiche indicano chiaramente da un lato l’assenza di ipertensione nelle popolazioni che ne consumino meno di 3 grammi al giorno, e dall’altro l’elevata incidenza di ipertensione (pressione sistolica e/o diastolica superiore a 140/90 mmHg) nelle popolazioni per le quali il consumo giornaliero supera i 20 grammi.
In particolare, tra i consumatori cronici di più di 3 grammi/die la percentuale di soggetti ipertesi aumenta marcatamente con l’età, a differenza di quanto accade tra gli appartenenti a quelle tribù isolate (sono circa 40 tra Sud America, Africa, isole del Pacifico e Artico), che a fronte di un’assunzione di meno di un grammo di cloruro di sodio al giorno, hanno livelli pressori medi attorno a 100/65 mm Hg anche dopo i 50 anni.
Il riconoscimento del sale da cucina come fattore di rischio indipendente di ipertensione risale alla metà del secolo scorso, quando in Giappone, il Paese con la maggiore incidenza di ipertensione e di emorragia cerebrale, si osservò che l’incidenza degli eventi nelle diverse regioni era strettamente correlata alla quantità di sale assunto con la dieta: era cioè elevata tra le popolazioni settentrionali con un consumo medio giornaliero pari a 27 grammi (con punte di 60 g) e il 70% di ipertesi tra 50 e 60 anni, ed era invece ridotta tra gli abitanti delle regioni meridionali, consumatori di circa 14 grammi al giorno di sale e con solo il 10% di ipertesi dopo i 50 anni.
Informazioni relative agli effetti sulla salute di livelli intermedi di consumo di sale da cucina (tra 3 e 20 grammi al giorno), di evidente interesse per le popolazioni come quella italiana, sono state ottenute da recenti studi osservazionali nei quali i livelli pressori sono stati correlati con la quantità di sale escreta con le urine nell’arco delle 24 ore: un parametro ben più affidabile della stima dei consumi ottenuta mediante questionari, inevitabilmente soggetta all’inaccuratezza di qualunque raccolta di informazioni ed alla variabilità delle valutazioni soggettive.
Il primo studio di questo tipo, rilevante tra l’altro per l’ampia numerosità della popolazione considerata, è stato INTERSALT, uno studio epidemiologico comparativo internazionale, condotto su più di 10.000 soggetti reclutati in 52 diversi centri, dal quale è emersa una correlazione diretta tra il volume di sale escreto con le urine e la pressione arteriosa sistolica e diastolica, che risulta aumentata rispettivamente di 10 e 6 mm Hg per livelli di escrezione maggiori di 5,7 grammi al giorno. Questo studio ha permesso anche di documentare un marcato incremento dei livelli pressori con l’età tra i soggetti con una maggiore escrezione di sale.
Altri studi, analoghi al precedente, condotti su popolazioni femminili, hanno definito un’associazione più stretta tra la quantità di sodio escreta con le urine ed i livelli di pressione sistolica e diastolica per le donne in menopausa, suggerendo una tendenza all’aumento della sensibilità al sale con la menopausa stessa. La correlazione tra aumento dell’escrezione renale di sodio e insorgenza di ipertensione è stata recentemente confermata nello studio WHO-CARDIAC (World Health Organization Cardiovascular Diseases and Alimentary Comparison), condotto in 60 centri distribuiti in 25 Paesi, su donne dai 48 ai 56 anni in post-menopausa.
L’importanza della cronicità dei livelli di assunzione di sale, rispetto a possibili differenze di natura genetica, è dimostrata da recenti studi osservazionali su piccole popolazioni, che migrando da zone rurali a zone urbane e passando in tempi brevi da diete povere di sale a diete più ricche, vanno incontro all’aumento della pressione media sistolica e diastolica nell’arco di pochi mesi.
Gli effetti benefici della riduzione dei livelli di sale nella dieta sono stati documentati, in studi in acuto, fino dai primi anni del 900, ma la prima dimostrazione del ruolo del sale di origine alimentare nell’ipertensione risale al 1948, quando Kempner trattò 500 pazienti ipertesi con una dieta controllata per contenuto in grassi e proteine, che apportava solo 0,5 g di sale al giorno. Oltre alla riduzione dei valori pressori, pari ad almeno 20 mm Hg nel 62% dei soggetti, l’autore osservò anche la riduzione delle dimensioni cardiache, la normalizzazione dell’ECG e la risoluzione dei casi di retinopatia grave.
Ricerche successive confermarono l’efficacia di una dieta iposodica “drastica” nel controllo dell’ipertensione; questo approccio fu tuttavia poi abbandonato con l’avvento dei farmaci mirati, primi tra tutti i diuretici. Solo negli anni ’80 quest’area di ricerca ha ripreso a suscitare interesse: con una serie di studi volti a determinare l’efficacia di diete meno rigide, a moderato contenuto di sale (e quindi più appetibili per il paziente), sui valori pressori.
In particolare il recente studio DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension), nel quale sono stati confrontati gli effetti dell’ assunzione di 4, 6 e 8 g al giorno di sale per 30 giorni, sia in pazienti ipertesi che in soggetti normotesi, si differenzia dagli altri per la meticolosità (ai partecipanti venivano forniti pasti preconfezionati, a composizione rigorosamente definita) e la varietà delle osservazioni (diari alimentari e dosaggio del sodio urinario nell’arco delle 24 ore, oltre alla pressione sistolica e diastolica in relazione a diversi tipi di dieta ricca in frutta e verdura e povera di latticini). Una riduzione significativa della pressione sistolica e diastolica è stata riscontrata, in DASH, tra coloro che assumevano 4 g di sale al giorno; l’effetto osservato è risultato maggiore nei pazienti con valori pressori iniziali più elevati, anche se la riduzione dei livelli di sale nella dieta si è dimostrata efficace in tutte le popolazioni considerate, nei normotesi, negli ipertesi, nelle donne, negli uomini, indipendentemente dall’età.
Un altro studio di meta analisi condotto in questi ultimi anni ha mostrato che in pazienti ipertesi una riduzione di 1,7grammi/die di sodio può portare ad una diminuzione della pressione sanguigna dai 3,7 ai 5,5 mmHg e ad una riduzione di 2,5grammi/die di sodio ne può conseguire un abbassamento fino a 7,2 mmHg.
In un’ottica preventiva oltre che terapeutica e in termini di salute pubblica, queste osservazioni assumono grande rilevanza, anche in virtù del fatto che buona parte degli eventi fatali associati alla pressione arteriosa elevata interessa soggetti solo moderatamente ipertesi, nei quali l’impiego di farmaci antipertensivi non trova sempre indicazione.
E’ importante sottolineare che diminuzioni, anche modeste, di pressione arteriosa possono portare ad una riduzione del rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari: studi recenti hanno dimostrato che diminuendo di 2mmHg la pressione diastolica si ha una diminuzione del rischio cardiovascolare relativo dal 6 al 15 %, e percentuali analoghe si ottengono con l’abbassamento di 5 mmHg della pressione sistolica.
Alla luce di questi dati in molte nazioni sono state fatte campagne educazionali al fine di ridurre l’assunzione di sale; in Finlandia, ad esempio, una propaganda di oltre vent’anni ha portato ad una diminuzione del consumo di sale del 40% con un evidente calo(>10 mmHg) della pressione sanguigna e degli eventi cardiovascolari (70%). In una regione della Cina le autorità locali sono intervenute per ridurre di 1grammo/die il sale nella dieta dei cittadini e ciò ha portato effetti positivi sulla pressione e di conseguenza sull’incidenza di eventi fatali.
Infarto del miocardio e altri problemi vascolari possono rappresentare una potenziale conseguenza dell’assunzione eccessiva di sodio anche indipendentemente dall’ipertensione. In uno studio condotto a Taiwan, dove si è sostituito il sodio con il potassio, la diminuzione di sodio ha riportato una conseguente riduzione di eventi cardiaci. Lo studio del 2007 di Cook e colleghi denominato TOHP, condotto su 3000 soggetti normotesi, ha evidenziato che la diminuzione di sodio nella dieta per un periodo prolungato (18, 24, 48 mesi) porta all’abbassamento del rischio cardiovascolare del 30%. anche in persone sane senza problemi pressori.
Sodio e scompenso cardiaco congestizio
La ritenzione di sodio e di liquidi, praticamente costante nel quadro clinico dello scompenso di cuore, è una diretta conseguenza della riduzione dell’efficacia contrattile del cuore (e quindi della sua capacità di pompa). I barorecettori situati in vari distretti arteriosi (specie l’arco aortico, il seno carotideo, le arterie renali), quando la gittata cardiaca si riduce, vengono infatti stimolati in maniera meno efficace, ed innescano una serie di risposte neuro-ormonali (essenzialmente mediate dall’attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone), che tendono ad aumentare la ritenzione di sodio con l’obiettivo di aumentare il volume ematico e quindi la pressione endo-arteriosa.
In condizioni di ridotta efficienza contrattile del cuore, tuttavia, la ritenzione idrosalina tende a sovraccaricare ulteriormente di lavoro il cuore stesso, peggiorandone la situazione emodinamica e quindi la sintomatologia ed il quadro clinico del paziente.
Ma è importante sottolineare che un sovraccarico di sale, secondo studi condotti nel nostro Paese, conduce rapidamente ad un aumento dei volumi telesistolici e telediastolici, senza un aumento dello stroke-volume e della frazione di eiezione, anche in assenza di segni clinici di scompenso in atto. L’escrezione renale sodica, inoltre, non aumenta in modo proporzionale, conducendo ad un progressivo accumulo di sodio.
Nel paziente scompensato coesiste spesso anche un quadro, più o meno marcato, di insufficienza renale, che può ulteriormente peggiorare il quadro clinico.
La restrizione sodica, quindi, è da sempre uno dei capisaldi della terapia “non farmacologica” del paziente con scompenso di cuore, pur in presenza di una terapia diuretica adeguata. Le linee guida sul tema suggeriscono di limitare l’apporto dietetico di sale a non più di 2 grammi/die.
Sale e metabolismo del calcio nelle ossa
Il rischio di osteoporosi, un problema che l’allungamento dell’aspettativa di vita ed il conseguente aumento della popolazione di età superiore ad 80 anni stanno trasformando in una vera epidemia, correla con fattori di vario tipo come l’età, il sesso, il metabolismo ormonale, la genetica, lo stile di vita e la dieta. Alcuni dati epidemiologici suggeriscono un’associazione diretta tra la presenza di alte concentrazioni di sale nella dieta ed il rischio di sviluppare questa patologia, anche se i possibili meccanismi che regolano questo fenomeno sono per ora solo ipotetici. L’aumento del cloruro di sodio di origine dietetica indurrebbe, in particolare, l’aumento del riassorbimento di sodio in eccesso a livello del tubulo prossimale e dell’ansa ascendente di Henle, con una conseguente riduzione del riassorbimento del calcio, che verrebbe quindi eliminato con le urine, impoverendo così il pool calcico nell’organismo.
Recenti studi clinici indicano che gli ACE-inibitori (farmaci anti-ipertensivi di prima scelta) possano ridurre il rischio di fratture e migliorino il metabolismo osseo suggerendo quindi che il sistema renina-angiotensina-aldosterone (sul quale gli ACE-inibitori agiscono) insieme al sodio, sono coinvolti nel metabolismo del calcio nelle ossa.
Fonti di sodio nella dieta
Il sodio che assumiamo quotidianamente può essere distinto in “discrezionale”, cioè aggiunto come sale da cucina durante la preparazione dei cibi, e “non discrezionale”, cioè già contenuto negli alimenti: sia perchè presente naturalmente che perchè aggiunto nelle trasformazioni artigianali o industriali. Dall\’analisi ponderata dei diversi gruppi di alimenti (tenendo conto sia delle concentrazioni di sale che delle quantità medie consumate giornalmente) risulta che i cereali ed i derivati, tra cui il pane, rappresentano la principale fonte di sodio non discrezionale (42%). Elevate quote derivano anche dai gruppi carne/uova/pesce (31%) e latte e derivati (21%), soprattutto a causa del sale aggiunto rispettivamente nelle carni e pesci conservati e nei formaggi; i contributi della frutta (3%) e delle verdure (2%) sono invece molto bassi. Anche l’acqua che si beve contribuisce all’apporto di sodio, e per i pazienti a rischio di eccesso di assunzione con la dieta è importante verificarne il contenuto sulle etichette delle acque minerali, che non deve superare i 5 mg/l.
Altre possibili fonti di sodio, come si accennava, sono infine i farmaci, soprattutto i preparati effervescenti a base di citrato e bicarbonato di sodio (che possono contenerne fino a 300 mg/dose, pari all’apporto sodico di 0,8 grammi di sale da cucina), anche gli antiacidi ne apportano modeste quantità, ma assumono particolare rilevanza solo se assunti in modo cronico. La Food and Drug Administration americana, che ha ribadito la necessità di una maggiore attenzione anche alle fonti minori di sodio dietetico, ha proposto che venga segnalato sulla confezione un contenuto di sodio anche solo superiore ai 5 mg per dose, e che vengano considerati a basso tenore di sodio solo alimenti e farmaci che non apportino più di 140 mg di sodio per unità di misura.
E’ di questi ultimi giorni la notizia di una ulteriore regolamentazione, sempre da parte della FDA, che prevede la segnalazione delle quantità di sodio addizionate, non solo sui prodotti industriali confezionati, ma anche sui cibi consumati ai ristoranti, nei fast food, pietanze preparate nelle rosticcerie e nel pane.
La disponibilità di prodotti a basso o nullo tenore sodico, alla luce di queste informazioni, trova indicazione in una quota crescente di pazienti.
Conclusioni
Un elevato apporto di sale è associato in modo dose dipendente all’ incidenza di ictus, eventi cardiovascolari e ad un alto costo per le cure mediche legate a queste patologie. E’ stato calcolato che, nei prossimi anni nei soli Stati Uniti, riducendo di 3 grammi/die il sale della dieta, si potrebbe assistere ad una diminuzione di più di 100000 eventi cardiovascolari, e di circa 30000 e 100000 casi rispettivamente di ictus e di infarto; riducendo di circa 90000 gli eventi mortali ogni anno. I benefici registrati da un regime dietetico di questo tipo non presentano discriminazioni di sesso, età, e razza, e possono portare ad un risparmio in termini di costi nell’ordine di milioni di euro.
La riduzione del sale nella dieta è quindi un importante obiettivo da raggiungere per la salute dei cittadini e il contenimento della spesa sanitaria.
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